Toccata e fuga nel movimento cattolico “Missione Belem”: la mia esperienza negativa

Anni fa avevo iniziato un articolo, mai pubblicato, sulla mia esperienza con il movimento cattolico Belem. Desideravo esporre un esame critico di questa realtà, in modo tale che si sapesse dov’è che casca l’asino nelle realtà di preghiera; poi, però, mi fermai. Certe cose è bene esporle, altre è meglio tenersele per se stessi. Talvolta è bene dilungarsi, altre volte è bene sintetizzare. Decisi che era bene riflettere per capire come procedere nel modo più ottimale e costruttivo possibile.

Dopo alcuni anni di riflessione, è giunta l’ora di parlare di Belem; dopo che quel manto di tenebra che offuscava l’anima ha lasciato i porti dirigendosi verso un “altrove”, l’area per parlarne si è liberata da eventuali risentimenti e influenze emozionali. Se ne può dunque parlare in modo costruttivo e imparziale, e non risentito e parziale. 

Esporre quanto segue può aiutare a capire cos’è che non dovrebbe venire attuato in una realtà di preghiera, facendo sì che i singoli membri si rendano conto di cosa possa non andare in un gruppo di persone che vogliono unirsi “in Cristo”. Prima di iniziare sono necessarie quattro premesse.

  1. Il fatto che con questo gruppo sia andata in un dato modo, non implica che in ogni singolo gruppo affiliato a Belem avvenga esattamente allo stesso modo
  2. Questa esperienza riguarda solamente una singola cellula “isolata” di questo movimento originario del Brasile. Non bisogna di certo generalizzare e mettere di mezzo tutte le cellule affiliate esistenti nel mondo (qualora ve ne fossero)
  3. Ci sono realtà ecclesiali di qualità, realtà di preghiera che camminano con Dio e realtà che invece cadono in se stesse. Bisogna sempre saper discernere il bene da ciò che non è bene, senza cadere nella trappola del generalismo di massa, un generalismo pedissequo e controproducente.
  4. Quanto espongo alla fine, nelle motivazioni, ha carattere costruttivo e non distruttivo

‘Spetta n’attimo…
Hai detto “MOVIMENTO BELEM”?
Cos’è?

Il movimento Belem è.. un movimento. Scusate, ma in realtà non ho molta voglia di parlarne e di perdere tempo a dirvi storia, origini e miracoli di questa realtà. Questo perchè non so granché. Nonostante abbia fatto delle ricerche e ai tempi chiesi ai diretti interessati chi fossero, se fossero riconosciuti e quale fosse la loro origine, le informazioni trovate non sono mai state propriamente complete. Ho sempre denotato, da parte della realtà medesima, una comunicazione incompleta e impropria, che tende al vago e all’ambiguo.

Da ciò che capii, che mi fu detto e che avevo reperito in rete, Belem è un movimento nato in Brasile per aiutare i ragazzi di strada. Poi arrivato in Italia. Beh, se volete saperne di più, qui trovate il sito ufficiale.

Vi racconto un po’

I. Dal carcere di Sant’Anna al Kebabbaro
Nel 2015, dopo una serie di avvicendamenti e pratiche varie, divenni volontario in carcere presso il penitenziario della città dove vivevo. Il volontariato era così strutturato: si andava ogni domenica, per quattro volte al mese, da tot ora a tot ora. Il compito del volontario era di partecipare alla Santa Messa con i detenuti nel braccio maschile del penitenziario. E, possibilmente, di animarla (la Messa). Alla fine della Messa, dinanzi le guardie penitenziare, era possibile intrattenersi a parlare con i detenuti.

Lì, durante una delle giornate di volontariato, vidi un uomo con la maglia “Movimento Belem” ed un grosso Rosario al collo. Da come parlava e da come si poneva, mi sembrava tanto un presbitero, tant’è che lo avevo idealizzato come un prete missionario. In realtà era un laico, perdipiù un bravissimo ragazzo, buono come il pane, facente parte del movimento. Lo chiamerò Carroll.

Un giorno, in ottobre, mentre camminavo in una particolare via del centro storico con un gruppo di ragazzi, passai davanti ad un kebabbaro: lì, di sfuggita, riconobbi quel ragazzo che avevo visto in carcere mesi prima. Era proprio lui, Carroll: stessa maglia e con il grosso Rosario appeso al collo. Allorché, mentre gli altri procedevano spediti lasciandomi dietro, io iniziai a rallentare.

Pensavo tra me e me.

“Lo saluto?”
“O non lo saluto e vado avanti?”
“Lo saluto o non lo saluto?”

Sapete, i nostri pensieri, se messi in atto, possono modificare il continuum di spazio e di tempo. Se mettiamo in pratica un particolare pensiero prodotto nella mente, possiamo modificare la continuazione del tessuto spazio temporale: in bene o in peggio, a seconda dei casi e dei principi di consequenzialità. Si applica ciò che si pensa, pur se voluto o non voluto.

Beh, quel giorno, quella sera, in quella frazione di spazio e di tempo, decisi di fermarmi. Avvisai gli altri.

“We!”
“Oi!”
“Mi sto fermando un attimo a salutare un tipo”

Così entrai nel Kebab e lo salutai.

“Hei ciao… “
“… ci siamo conosciuti in carcere per volontariato… Ricordi?”
“Ah! Si! Ricordo! Ciao!”

Etc, etc…

L’incontro fu breve. Ad un certo punto feci per andarmene quando mi parlò di un ritiro spirituale di nome JESHUA. Mi invitò a partecipare a questo ritiro.

“Ti invito a un ritiro.. “
“Che ritiro?” feci io.
“È un segreto, non si può sapere in anticipo cosa sia!”
“Ah ok…”
“Quando lo farai, capirai perchè non si poteva sapere”

Vani furono i tentativi di ottenere una qualche informazione. Il ritiro era segreto e mi promise che sarebbe stato fantastico. Ok, bene. Accettai e me ne andai. Mi rimase il volantino promozionale tra le mani.

Premetto che questo ritiro spirituale chiamato JESHUA non sono MAI riuscito a farlo. Quello che doveva essere la mia prima partecipazione al ritiro di ottobre, non avvenne e alla fine non riuscii a parteciparvi. Non ho mai capito né scoperto cosa sia e nessuno di quelli che han partecipato, e che ho conosciuto nel corso degli anni, mi han mai dato una risposta. Non so dirvi cosa fosse: ad oggi, siamo nel 2020, non l’ho mai fatto.

II. L’incontro iniziale, gli incontri settimanali…
Oltre il ritiro, il movimento Belem proponeva (e forse propone ancor oggi, non saprei) una serie di incontri giovani su base settimanale. Partecipai al mio primo incontro un mercoledì. Accadde nella parrocchia di San Biagio, in un comune di provincia. Ne ho fatte così tante di esperienze nei gruppi, movimento, associazioni, cenacoli e compagnia simile che questa doveva essere la ventesima volta che provavo a conoscere una realtà e che provavo a far parte di qualcosa.

Al primo incontro mi si presentò un ragazzo che era un po’ il vertice dell’equipe tecnica, il “capo”, l’elemento di riferimento. Lo chiamerò Ema. Ema si presentò come se io fossi la creatura sulla terra che più amava in assoluto: in quel momento mi fece sentire pienamente amato e al centro dell’attenzione. Mi fece sentire come se io fossi “il tutto” per lui e il gruppo. Non mi ero mai sentito così accolto.

Grandissime furono le attenzioni immediate che ricevetti: tutti accorsero verso di me, a salutarmi, ad abbracciarmi, con grande approccio fisico prorompente, abbracci individuali da parte di ognuno dei presenti, mani che si strisciavano sulle mie spalle, contatti fisici gratuiti a non finire tra dorso, collo e spalla.

Vennero tutti a darmi il benvenuto, come non era mai successo in vita mia. Mi sentii considerato come non era mai successo. Mi sentii accolto come non era mai successo. Era come se fossi davvero importante e come se fossi tutto per loro. Una creatura di Dio, l’ultima sulla terra. Un “Love effect” iniziale ENORME. Della serie “Loro ci tengono davvero…”.

Una cosa che non dimenticherò mai del primo incontro, furono le promesse che facevano ad ogni cosa che dicevo. Il meccanismo era il seguente: mi ponevano una domanda, rispondevo e mi davano una promessa.

Esempio #1:

  • “Come ti chiami?”
  • “Fabio”
  • “Come va la vita?”
  • “Mi sento solo.”
  • “Ti promettiamo che non ti lasceremo mai solo!”

Esempio #2:

  • “Che fai nella vita?”
  • “Cerco di professionalizzarmi come scrittore, devo iniziare un percorso di studi e…”
  • “Ti troviamo il lavoro! Tra due giorni un nostro amico ti chiama per farti lavorare come scrittore in una rivista che conosciamo noi!”

Esempio #3:

  • “Hai amici?”
  • “Li sto cercando.”
  • “Da ora in poi saremo noi i tuoi amici! Non sei più solo!”

Certo che le promesse si possono fare. Farle non implica essere necessariamente in errore: ma vanno poi mantenute. E, data la natura umana, il più delle volte è bene non promettere, onde poi causare disastri dettati dalla delusione. Che è poi ciò che accadde.

Gli incontri proseguivano a ritmi serrati e cadenza regolare, più o meno. Man mano che passava il tempo, però, iniziai a vedere e vivere qualcosa che non andava, che si sovrapponeva e si accavallava sul lungo termine, aumentando le sofferenze di chi, in quel gruppo, doveva starci.

È un po’ come se facessi qualcosa che non va bene e poi lo ripetessi ogni settimana e la persona è “costretta” a subirla ogni volta. Solo che questo qualcosa è un insieme di cose. Che si ripetono, sempre, ogni volta. Con voi che siete sempre in torto; e l’equipe, con il loro capo, che hanno sempre ragione.

Alla fine, dopo tre mesi di frequentazione, tra Q4 di fine anno e Q1 di inizio anno, decisi di non andare più e di togliermi a vita dalla realtà in cui ero finito. Ad ogni incontro la gioia di partecipare diminuiva e le motivazioni per andarsene aumentavano. In quei tre mesi furono di più le ferite, le delusioni e le umiliazioni ricevute che le gioie. Una parte di quel vissuto rimarrà sempre con me, nel privato, onde evitare effetti collaterali indesiderati.


E furono tre mesi ostici, nei quali si manifestarono tutte le problematiche di una realtà solo apparentemente cattolica. E di seguito è necessario dire ciò che non andò bene affatto e che di fatto rovinò ogni proposito iniziale di fare del bene.

Bisogna dunque dire perchè è bene prestare attenzione e cautela qualora si volesse far parte di una cellula qualunque di questa realtà, evitando sì di generalizzare ma facendo attenzione che le cose che seguono non si ripetano.

Le ragioni si possono riassumere in cinque motivi

I. Effetto “Love Bombing” tipico delle sette
Amare una persona è naturale; accoglierla è naturale; farla sentire benvenuta è naturale. Bisogna però far tutto in maniera ordinaria ed ordinata, spontanea e naturale, senza estremismi e forzature programmate. Fare tutto questo con modalità comportamentali capaci di “estremizzare” questa cultura dell’amore e dell’accoglienza è eccessivo, ed è segno di squilibrio nelle “politiche” e nelle dinamiche del gruppo; significa sovraccaricare in eccesso “l’amore” della prima ora stordendo la persona appena arrivata.

È l’effetto “Love bombing” tipico delle sette: ti stordiscono per farti innamorare di loro il prima possibile, per non farti più andare via, per convincerti che solo lì sei capito, amato, voluto come da nessun’altra parte e che solo loro possono amarti. Il disastro di questo “Love bombing effect” è che fingono di amarti: è forzato, non è reale. Quando te ne rendi conto e quando vedi dov’è che casca l’asino, grazie alla “legge dell’incoerenza”, subentrano le prime ferite, le sofferenze e le delusioni senza fine.

II. L’incoerenza tra parola e fatto
Ad una parola deve seguire il fatto: oggi (e non solo), l’uomo è deluso dagli uomini della Chiesa perchè chi ne fa parte parla tanto, ma mancano poi i fatti, corrispondenti della parola. Tutti bravi a parlare: quando si tratta di fatti, opere (azioni), le persone spariscono e si vede poco all’orizzonte.

L’amore ricevuto era una costruzione fasulla e attoriale, non attuata perchè lo volevano ma “perchè così doveva essere”. Parole di amore mai mantenute e dimostrate con i fatti; parole di fraternità mai mantenute e dimostrate con i fatti. Non facevano altro che parlare di famiglia, fratellanza, essere amici, essere fratelli. All’atto pratico c’era qualcosa di mancante e opposto.

Ti bombardavano con ore e ore di discorsi senza fine, le quali non venivano poi supportate da fatti concreti proporzionali alla parola data una volta che l’incontro era finito. All’atto pratico vivevo comportamenti che contraddicevano la teoria così tanto diffusa nel gruppo. Mi capitò una volta di incontrare una ragazza: dentro il gruppo era “love for everyone”, fuori faceva finta di non vederti. Le altre erano “ti amo come fossi l’ultima cosa al mondo”, al di fuori cadevano nell’indifferenza e nell’acidità di comportamento. Nel gruppo c’era invece una robusta maschera capace di coprire le frustrazioni che ognuno portava dentro.

Al di fuori degli incontri del gruppo, si finiva per non esistere e per non contare. Il loro amore svanisce nell’attimo in cui termina l’incontro settimanale, come ti vedono in strada, come fai qualcosa che a loro non piace. Con loro era così: “super amato” dentro i 60 minuti dell’incontro, inesistente al di fuori fino al prossimo incontro. Terminato l’incontro, nel quotidiano e lungo la settimana, eri e rimanevi una persona sola. Non esistevi per nessuno e nessuno dimostrava realmente che gliene fregasse qualcosa. Questo causava una sofferenza notevole, sopratutto quando, nell’incontro successivo, si ritornava alla farsa dell’approccio “love bombing effect”.

III. Approccio fisico “bomb effect”
Il medesimo del primo effetto, solo fisico. Durante l’incontro si veniva sommersi da questo “amore” condito da tantissimo approccio fisico, un approccio fisico continuo, massiccio, morboso e gratuito, capace di generare un’emozione (voglia) e di far credere davvero di essere amato, grazie ad una sorta di tecnica psicologica irrazionale. Ti accarezzo sulle spalle e sui capelli dolcemente e ripetutamente mentre ti sorrido, genero un’emozione e ti senti coccolato: è un “sentirti” fasullo, inganno dell’io emotivo (irrazionale). Finita questa sceneggiata, mi capitava di incontrare persone che, al di fuori del gruppo, facevano finta di non conoscermi.

L’approccio fisico era sostanzialmente irregolare, morboso. Era un continuo mettere le mani attorno alle spalle dell’altro per generare in lui un’emozione, facendolo sentire continuamente ‘voluto’ e ‘coccolato’. L’abbraccio era continuo e senza sosta; quando qualcuno non voleva abbracciarti ma ti abbracciava, perchè era forzato a farlo, si capiva, con fastidi e imbarazzi per chi era forzato a compiere quel gesto.

IV. Stranezze assortite
Non erano pienamente in linea determinate cose che accadevano in relazione al contesto in cui avvenivano gli incontri. Una sorta di fai-da-te anarchico che non si poneva alla luce della disciplina ecclesiastica ma “personalizzava” largamente determinati elementi in seno alla parrocchia. Elementi di competenza di un sacerdote che spesso venivano invece attuati da chi non aveva quel particolare potere (utilizzo di un dato costume, possibilità di toccare l’Ostensorio, catechesi dall’altare…).

Vi era poi l’obbligo di partecipare al ritiro “segreto” JESHUA per poter divenire parte effettiva ed integrante del gruppo. Senza la partecipazione al ritiro non era possibile partecipare ad altro né venire chiamati per eventi sociali o in casa altrui. La volontà di farti venire a questo ritiro era insistente, continua, petulante, quasi ossessiva. Un’insistenza che continuava nel tempo, fino a che non partecipavi. L’obbligo della partecipazione per passare ‘al dopo’ suscitava ambiguità, ti portava a perdere determinate possibilità e non era mai realmente spiegato ne motivato.

V. Dinamiche impositive, conformità obbligate e critiche continue
In quei tre mesi, tra le cose peggiori sono state le imposizioni da setta-comportamentale e le critiche subite. Innumerevoli gli episodi vissuti in prima persona o visti su persone altrui. Dato l’accumulo quantitativo nonchè la qualità del “fatto”, il benessere psicologico ne risentiva gravemente.

In quel gruppo vigevano tre comportamenti fissi:

  1. La critica continua: se si faceva qualcosa che a loro non piaceva, se si usciva dal binario e dal protocollo di uniformità al gruppo
  2. L’imposizione: se ti dicevano di fare qualcosa, dovevi farla
  3. Conformità totale: bisognava fare, dire ed essere esattamente quello che loro volevano che tu facessi, dicessi e fossi senza possibilità di venire accettati per come si era

Nella realtà creatasi era prorompente la cultura dell’imposizione. Dovevi essere quello che loro volevano che tu fossi e non quello che eri. La critica era incessante e dietro l’angolo qualora qualcuno uscisse dal binario, qualsiasi cosa facesse o dicesse.

Quel sub-strato di imposizione vissuto nel gruppo creò ripercussioni psicologiche ad alcune persone, una buona parte del gruppo, e ad un ragazzo in particolare che ad oggi ha abbandonato la realtà ecclesiali, e che se ne uscì con ripercussioni psicologiche e personali notevoli.

Le dinamiche impositive precludevano la possibilità di esprimersi in tranquillità, sincerità e verità; di dissentire con Ema, con il gruppo, con l’equipe; di contraddire chicchessia; di esprimersi liberamente nel linguaggio, nella parola, nel pensiero, nell’atteggiamento. Le dinamiche impositive da setta erano prevalenti nel modello comportamentale dell’individuo: questo doveva atteggiarsi e reagire come loro volevano che si atteggiasse e reagisse.

C’era un grandissimo pressing psicologico nel tentativo di forzare il prossimo ad attuare determinati atteggiamenti, che venivano innaturali e forzati. Questi comprendevano:

  1. La parola e il pensiero, doveva essere sottomesso a quello che loro si aspettavano
  2. Abbracciare ogni arrivato all’inizio e alla fine dell’incontro, senza possibilità di escludersi dal gesto
  3. Replicare totalmente i gesti, le azioni e le dinamiche interne al gruppo

L’uniformità ai gesti e alle azioni interne va specificata. Avveniva in senso letterale. Se durante una preghiera mettevamo le mani in avanti per pregare, tutti dovevano alzare le mani e metterle in avanti per pregare. Se durante una preghiera il capo decideva di poggiare la mano destra sulla spalla sinistra del compagno, dovevi poggiare a tua volta la mano destra sulla spalla sinistra del compagno di lato, perchè così si pregava. Si era forzati, chi si distaccava veniva criticato.

La cultura dell’ “abbraccio forzato” era prorompente; mi capitò una volta di venirmi chiesto “di abbracciare tutti ad uno ad uno”, a conclusione dell’incontro, in obbedienza al capo. Di fatto, non potei uscire dal gruppo senza prima aver compiuto questo gesto, nonostante non volessi farlo. Tipiche dinamiche da setta.

Vi era poi una sorta di timore psicologico verso l’equipe. Se Ema parlava, non era possibile entrarvi in dissenso. Era reticente alle correzioni e al dialogo. Non c’erano discussioni né opinioni diverse. Non c’era possibilità di dialogo reciproco e di libertà d’azione. I ragazzi all’interno del gruppo erano generalmente zittiti. Non c’erano opinioni e pensieri diversi rispetto ai “vertici”.

Vi sono episodi e sofferenze vissute che non racconterò e che non hanno trovato sfogo per mia scelta. Tutto ciò che vissi in questo gruppo fu una parte di gioia iniziale presunta mista a grande eccitazione e contentezza d’animo e poi, gradualmente, di disillusione, delusione e sofferenza, senza che qualcuno abbia mai chiesto scusa e senza che qualcuno avesse mai messo in dubbio i propri atteggiamenti. Andarmene fu l’unica soluzione per la salvaguardia della fede personale. Puoi rimanere fino ad un certo punto, ma quando ci si forza con possibilità di ledere alla propria fede, è bene sapersene andare e cambiare strada.


Dai frutti si riconosce l’albero e se i frutti sono buoni, le persone continuano a usufruirne allegramente, cibandosi presso la fonte scelta. Dalla qualità dei frutti, l’individuo decide se proseguire o meno in una data realtà, se rimanervi con gioia o andarsene. Come effetto naturale di quello che il gruppo è stato, le persone hanno smesso gradualmente di parteciparvi e l’equipe si è distrutta da sola.

Ho scritto quanto segue per illustrare quello che di “non giusto” può avvenire in un gruppo di preghiera e affinchè si possa illustrare chiaramente dov’è che casca l’asino. I gruppi e le realtà ecclesiali possono migliorale. Anche il Movimento Belem, che continua ad esistere altrove nel mondo, può far tesoro di questa esperienza complessivamente nefasta per agire di conseguenza ed evitare che in futuro accadano esperienze analoghe, cercando di capire che tutti questi elementi non portano al bene dell’anima ma alla distruzione del proprio gruppo.

Ricevere l’esperienza altrui è un bene prezioso, sopratutto se qualcuno, all’interno di una qualche realtà ecclesiale, si chiedesse cosa ne pensi un esterno della propria realtà o cosa questo ‘esterno’ abbia vissuto. Qualora sia interessato a scoprire il vissuto altrui, la propria testimonianza può aiutare a mostrarne le bellezze oppure ad individuarne le falle – o tutte e due.

Concludendo, Belem fu un’esperienza complessivamente negativa, che porta con sé le falle e le brutture delle realtà “cattoliche” che ancora non hanno realmente conosciuto Cristo ed il suo modus operandi. Ed è per questo che, in fondo, non consiglio necessariamente questa realtà a chi cerca un gruppo con cui crescere nella fede, salvo i casi in cui dovesse trovarsi con una cellula del movimento certamente migliore. Nella speranza che le anime che ne facevano parte abbiano capito dove hanno sbagliato.

7 pensieri su “Toccata e fuga nel movimento cattolico “Missione Belem”: la mia esperienza negativa

  1. Non mi è possibile sapere se gli altri gruppi di questo movimento seguano la stessa linea, ma è piuttosto improbabile che così non sia.
    Hai descritto una situazione grave, e hai fatto bene ad andartene – io avrei anche denunciato.

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  2. Non si capisce quasi niente della tua esperienza, ti sei fermato troppo sul generale. Non aiuti altre persone che si potrebbero trovare nelle stesse condizioni.

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    1. È problema di interpretazione personale dettato dalla propria capacità di comprendere quanto si legge. Se certuni non capiscono, io capisco le loro difficoltà di elaborare quanto scritto. Nell’esprimere le motivazioni dell’esperienza negativa sono stato preciso e specifico, ho adottato una precisione chirurgica nell’esprimere le problematiche e le difficoltà. Ho espresso di fatto tutte le problematiche riscontrate. È naturale che un linguaggio elaborato non sia alla portata di tutti.

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      1. io la missione belem la conosco molto bene e ci sono stato dentro per anni.

        comunque è gente malata e sono stato risucchiato da loro, causa: abbandono dai genitori.

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